Punto a capo. Lettera maiuscola… (Bertoni 2024)

PRESENTAZIONE

Un racconto «fatto a spizzichi e compiuto senza pretese e in totale semplicità», così Loretta Marcon definisce il suo “Punto a capo”. E aggiunge nella pagina finale qualche suo verso ricordando «solitudini perdute/ e giorni vogliosi di un riso/beffardo/Ora/ perché incontro l’adesso».

L’ «adesso» sono proprio queste pagine che leggiamo piacevolmente con il segno e il tono quieto e insieme scorrevole di chi -una Lei- vuole raccontarsi dentro una parabola assai significativa, la simulazione di un percorso d’esistenza che dalla “remissione” approda ad una “sorta di ribellione”. Ma “Punto a capo” non è un “memoir” e neppure un libro di prevedibile autobiografia che segue le vicende di una vita che, ad un certo punto, esce da un “tunnel” e scopre una «ripartenza, una nuova nascita». In realtà Loretta Marcon, che conosciamo e molto stimiamo per tutto quello che ha fatto e scritto intorno alla figura di Giacomo Leopardi, è nascosta dietro la maschera di una “Lei” di cui sono ricostruite le vicende personali. Una maschera che ben si sovrappone e si identifica nella sua esperienza esistenziale e culturale, ma la salva dal difetto più rischioso in simili imprese. Un io superegotico, esorbitante o al contrario ridotto alla sua minimalità insignificante. Proprio perché vuole «introdurre il valore che oggi appare in disuso del far memoria, del tramandare», questa Lei-Loretta passa in rassegna i contenuti o meglio il sentimento stesso del suo viaggio nel “fare memoria”, come affidato ad una controfigura lieve e vagante. Nel suo itinerario a tappe attraverso il ricordo delinea un prima e un dopo: il passaggio da un’Esistenza che diverrà Vita, una conversione radicale verso una continua progettualità.

I momenti dell’ esistenza vengono allineati come su un tavolo ideale su cui pescare, amalgamare, ricavare un flusso di evidenza storica e sociologica appena marcate. Il ricordo della propria vita passata. Un’educazione borghese negli anni cinquanta e sessanta, la scuola per signorine per bene, il primo lavoro, la conquista dell’Olivetti ( un flash narrativo particolarmente felice) , una madre che tanto somiglia a quella di Leopardi «occupata ad amministrare più che a comprendere». Poi il matrimonio , «una specie di fuga in un mondo di libertà che mai aveva conosciuto». Tutto un itinerario che sembra segnato passo dopo passo fino all’immancabile depressione: il sole nero, l’abisso di tristezza , il dolore incomunicabile che talora ci assorbe, fino a farci perdere il gusto di qualsiasi atto, il gusto della vita. Ma la Lei sa con Simone De Beauvoir che non si trasforma la propria vita senza trasformare sé stessi, sa con George Eliot che non è mai troppo tardi per essere ciò che avresti voluto essere. E comincia a trasformare sé stessa, capisce che può essere quella che voleva essere. Si è trovata come dinnanzi ad una specie di incrocio, quello di cui parla Wittgenstein. Più vie, ma bisogna indovinare quella giusta, quella che la porta dove sente di andare, quella per cui il caso che regge le sorti dell’uomo può diventare un destino, il proprio destino. Loretta Marcon scopre la bellezza e la perseveranza di una vita di studi e di ricerca, ritrova Leopardi e su di lui si laurea e con lui inizia un cammino di conoscenza e di scrittura. E anche un’opera di divulgazione che si prolunga nel tempo, con la prima visita a Recanati, la frequentazione della biblioteca di Casa Leopardi, la presenza della contessa Anna che è l’ultima custode delle memorie del poeta ritratta in poche felicissime righe e poi… Poi «un cerchio dentro al quale lei veniva a trovarsi oltre la corrispondenza d’amorosi sensi , insieme a Lui, nel suo secolo, nella sua casa, ma soprattutto vicino alla sua anima».

Dunque Leopardi, poeta di una vita, “angelo dalla spada sguainata”, con la sua opera “di prudenza per i ribelli”. Leopardi eroico e titanico, pessimista e ribelle, resistente a una realtà che dal dolore estrae una linea di solidarietà, la “disperata forza fraterna tra uomini“.

Loretta Marcon è così a tal punto immedesimata nelle parole di Leopardi quasi come il collezionista fuso con i suoi oggetti di Walter Benjamin e potrebbe ricordare il proprio vissuto infantile di «disidratazione delle parole», quando cioè si attenuava la corrispondenza tra la parola e l’oggetto da essa designato. Capiamo meglio il desiderio che la abbaglia, il sogno che la alimenta, il mito che vuole elaborare: muoversi tra gli amati segni leopardiani come tra i giocattoli della sua infanzia per protrarla all’infinito. Vera leopardiana appassionata e non leopardista come qualcuno, frigido e opportunista, e in barba agli specialisti che compilano bibliografie.

“Punto a capo” racconta in modo assai persuasivo una metamorfosi che è impegno continuo e una scelta di vita che diventa una vera e propria visione del mondo, nel modo in cui la intendeva Lucien Goldmann.

Renato Minore

Con l’editore Jean Luc Bertoni al Salone del Libro di Torino – 9 maggio 2024

Prima e dopo l’Incontro con Giacomo Leopardi… (Presentazione di Renato Minore)

Loretta Marcon si racconta. Un c’era una volta che diviene psicoanalisi lieve e liberatoria. Apre nuovamente la sua scatola di latta (Loretta Marcon LA SCATOLA DI LATTA Versi e Pensieri – luglio 2013) e lo fa in punta di piedi, muovendo i fili di una “Lei” che cresce man mano che si sfogliano le pagine dei racconti brevi, regalati alla carta e a se stessa.

Poi, lo spartiacque, Giacomo Leopardi che le si presenta quando “Lei”, donna matura, è consapevole di voler dare un taglio ad un prima non appagante. Il taglio è definitivo ed è il dopo.

“Lei”, di cui si narra, è pronta ad aprirsi definitivamente a ciò che le piace, che la fa sentire bene e le permette di crescere nel pensiero e nel cuore.

L’incontro con Giacomo, come ama chiamarlo – anche noi poi ci rivolgeremo al Poeta di Recanati chiamandolo amichevolmente Giacomo – le aprirà orizzonti fisici e psicologici definitivi, una strada sana di non ritorno. Sarà il suo balsamo, il suo rifugio, i futuri studi, la via che la condurrà nell’Infinito leopardiano e in quello personale, privo di condizionamenti… tutti.

Il percorso recanatese intrapreso, se pur difficile e non senza nei, diverrà consuetudine per approfondire la conoscenza del Poeta e la conseguente divulgazione.

Inevitabile riflettere sul mistero di un destino che si manifesta contro la nostra volontà e che non è facile comprendere, se non gli andiamo incontro in libertà. Questo Loretta lo sa bene, perché lo ha imparato con la fatica del tempo che l’accoglie inesorabile.

(Luciana Interlenghi, Recanati)

Egloga scritta da Monaldo Leopardi

Vintage-Christmas-tree-decorations-on-white-fireplace-mantle

EGLOGA scritta da Monaldo Leopardi in occasione del Santo Natale 1806 e recitata in famiglia dai piccoli Giacomo e Carlo (pubblicata da Anna Leopardi in occasione del S. Natale 2006, dedicandola agli amici per augurar loro un anno felice e sereno).

EGLOGA PER IL SANTO NATALE

Giacomo: Carluccio

Carlo: Giacomuccio

Giacomo: Perché siete svegliato?

Carlo: Finora le campane a festa hanno sonato:

dormivo tanto bene: proprio m’ha fatto male!

Giacomo: Vogliamo dir che sia la notte di Natale?

Carlo: Oibò! Fu anno passato. Non lo sapete?

Giacomo: E bene

La notte di Natale in tutti gli anni viene.

Carlo: Ma, dunque, Giacomuccio, il nostro Redentore

In tutti gli anni nasce, in tutti gli anni muore.

Giacomo: Eh, via! Sol una volta per noi morì Gesù:

Adesso vive in cielo, né morirà mai più.

Bensì la Santa Chiesa, con festa principale,

Celebra tutti gli anni la Notte di Natale.

Carlo: Dunque, senz’altro è questa. Babbo…

Giacomo: Mamma; sentite

Il nostro Salvatore è nato e voi dormite.

Carlo: Eh, altro che dormire! Loro si sono alzati.

Giacomo: Saranno andati in Chiesa, e a noi ci hanno piantati.

Carlo: Alziamoci noi pure.

Giacomo: Ci avessero a gridare?

Carlo: Eh no! Gesù Bambino andiamo a salutare.

Giacomo: Oh! Via, per questa volta. Non lo faremo più.

Carlo: Si tratta che ci alziamo per adorar Gesù.

Giacomo: Andiamo nel presepio a fargli compagnia.

Carlo: Diremo il Pater noster, e poi l’Ave Maria.

Giacomo: Sì; e poi gli canteremo tutta la canzoncina.

Carlo: Quella che fece Babbo per noi quella mattina?

Giacomo: Quella per ottenere felicità e contenti

A nonna, a babbo, a mamma e a tutti li parenti.

Carlo: Eccoci dunque. Attenti.

Giacono: Allegramente, a noi.

Su, cominciate.

Carlo: E’ meglio che cominciate voi.

Giacomo: Ti lodo, e t’adoro,

O Figlio divino,

Che fatto bambino

Scendesti dal ciel.

Carlo: Ti lodo, e t’adoro,

O verbo increato,

Che in terra sei nato

Fra i stenti e fra ‘l gel.

Giacomo: E tu, bella mamma,

Di tanto Signore

Presenta il mio cuore

Al caro Gesù.

Carlo: E tu, che qui in terra

Gli servi da Padre,

Al Figlio e alla Madre

Presentami tu.

Giacomo: Se poco è questo cuore,

Altro, Gesù, non ho.

Carlo: Accettami, Signore,

Che tutto a te mi do.

Diacono: A voi raccomandiamo,

Gesù, la casa nostra;

Donate a quanti siamo

Gesù, la grazia vostra;

E fateci contenti

Per una eternità.

Carlo: A babbo nostro e a mamma

Felicità donate;

A Nonna che va a Pesaro

Un buon viaggio date;

Ma non si faccia monaca

E torni in sanità.

Giacomo: Pace, salute e bene,

Gesù, date a zio Vito;

Date a zio Pietro ancora

Salute ed appetito:

Ma questo non sia tanto,

Gesù, per carità!

Carlo: A zio Ernesto pure

Date contenti ognora;

E fate che zio Ettore

Viva felice ancora.

Se non ci ha dati i brevi

Pazienza ci vorrà!

Giacomo: Il signor Don Giuseppe

Fate felice e santo;

Ma faccia poca scuola,

Ché se la slunga tanto,

Come successe a babbo

A noi succederà!

Carlo: Deh! Fate che viviamo

Sempre con pace e riso.

Giacomo: E fate che veniamo

Con voi in paradiso.

Giacomo e Carlo: A giubilare, a vivere

Per una eternità.

A Maria

A Maria (dagli “Inni cristiani” abbozzi di Giacomo Leopardi)


E’ vero che siamo tutti malvagi, ma non ne godiamo, siamo tanto infelici. E’ vero che questa vita e questi mali son brevi e nulli, ma noi pure siam piccoli e ci riescono lunghissimi e insopportabili. Tu che sei già grande e sicura, abbi pietà di tante miserie. ec.


[Gli abbozzi degli Inni risalgono ad un periodo compreso tra l’estate e l’autunno 1819 ]


29 giugno 1798 – 29 giugno 2023

Bella ed amabile illusione è quella per la quale i dì anniversari di un avvenimento, che per verità non ha a fare con essi più che con qualunque altro dì dell’anno, paiono avere con quello un’attinenza particolare, e che quasi un’ombra del passato risorga e ritorni sempre in quei giorni, e ci sia davanti: onde è medicato in parte il tristo pensiero dell’annullamento di ciò che fu, e sollevato il dolore di molte perdite, parendo che quelle ricorrenze facciano che ciò che è passato, e che più non torna, non sia spento né perduto del tutto. Come trovandoci in luoghi dove sieno accadute cose o per se stesse o verso di noi memorabili, e dicendo, qui avvenne questo, e qui questo, ci reputiamo, per modo di dire, più vicini a quegli avvenimenti, che quando ci troviamo altrove; così quando diciamo, oggi è l’anno, o tanti anni, accadde la tal cosa, ovvero la tale, questa ci pare, per dir così, più presente, o meno passata, che negli altri giorni. E tale immaginazione è sì radicata nell’uomo, che a fatica pare che si possa credere che l’anniversario sia così alieno dalla cosa come ogni altro dì: onde il celebrare annualmente le ricordanze importanti, sì religiose come civili, sì pubbliche come private, i dì natalizi e quelli delle morti delle persone care, ed altri simili, fu comune, ed è, a tutte le nazioni che hanno, ovvero ebbero, ricordanze e calendario. Ed ho notato, interrogando in tal proposito parecchi, che gli uomini sensibili, ed usati alla solitudine, o a conversare internamente, sogliono essere studiosissimi degli anniversari, e vivere, per dir così, di rimembranze di tal genere, sempre riandando, e dicendo fra sé: in un giorno dell’anno come il presente mi accadde questa o questa cosa.

(Pensieri, XIII)

29 giugno 1798 – 29 giugno 2023

La freschezza e il candore di queste rose per Te, caro Giacomo, da una “social catena” di “gentili anime”, a te vicina con amore sempre…

Buon compleanno nel Tuo Infinito! 💖

8 Marzo 2023

Una donna di 20, 25 o 30 anni ha forse più d’attraits, più d’illecebre, ed è più atta a ispirare, e maggiormente a mantenere, una passione. Così almeno è paruto a me sempre, anche nella primissima gioventù: così anche ad altri che se ne intendono (M. Merle). Ma veramente una giovane dai 16 ai 18 anni ha nel suo viso, ne’ suoi moti, nelle sue voci, salti ec. un non so che di divino, che niente può agguagliare. Qualunque sia il suo carattere, il suo gusto; allegra o malinconica, capricciosa o grave, vivace o modesta; quel fiore purissimo, intatto, freschissimo di gioventù, quella speranza vergine, incolume che gli si legge nel viso e negli atti, o che voi nel guardarla concepite in lei e per lei; quell’aria d’innocenza, d’ignoranza completa del male, delle sventure, de’ patimenti; quel fiore insomma, quel primissimo fior della vita; tutte queste cose, anche senza innamorarvi, anche senza interessarvi, fanno in voi un’impressione così viva, così profonda, così ineffabile, che voi non vi saziate di guardar quel viso, ed io non conosco cosa che più di questa sia capace di elevarci l’anima, di trasportarci in un altro mondo, di darci un’idea d’angeli, di paradiso, di divinità, di felicità. Tutto questo, ripeto, senza innamorarci, cioè senza muoverci desiderio di posseder quell’oggetto. La stessa divinità che noi vi scorgiamo, ce ne rende in certo modo alieni, ce lo fa riguardar come di una sfera diversa e superiore alla nostra, a cui non possiamo aspirare. Laddove in quelle altre donne troviamo più umanità, più somiglianza con noi; quindi più inclinazione in noi verso loro, e più ardire di desiderare una corrispondenza seco. Del resto se a quel che ho detto, nel vedere e contemplare una giovane di 16 o 18 anni, si aggiunga il pensiero dei patimenti che l’aspettano, delle sventure che vanno ad oscurare e a spegner ben tosto quella pura gioia, della vanità di quelle care speranze, della indicibile fugacità di quel fiore, di quello stato, di quelle bellezze; si aggiunga il ritorno sopra noi medesimi; e quindi un sentimento di compassione per quell’angelo di felicità, per noi medesimi, per la sorte umana, per la vita, (tutte cose che non possono mancar di venire alla mente), ne segue un affetto il più vago e il più sublime che possa immaginarsi (Fir. 30. Giu. 1828).

Una pagina bellissima dello Zibaldone che si lega ad “A Silvia” e che è oggetto del mio saggio: L’ “inedito scrittarello” dello Zibaldone (La Scuola di Pitagora editrice, 2019)

AUGURI A TUTTE LE DONNE!