PRESENTAZIONE
Un racconto «fatto a spizzichi e compiuto senza pretese e in totale semplicità», così Loretta Marcon definisce il suo “Punto a capo”. E aggiunge nella pagina finale qualche suo verso ricordando «solitudini perdute/ e giorni vogliosi di un riso/beffardo/Ora/ perché incontro l’adesso».
L’ «adesso» sono proprio queste pagine che leggiamo piacevolmente con il segno e il tono quieto e insieme scorrevole di chi -una Lei- vuole raccontarsi dentro una parabola assai significativa, la simulazione di un percorso d’esistenza che dalla “remissione” approda ad una “sorta di ribellione”. Ma “Punto a capo” non è un “memoir” e neppure un libro di prevedibile autobiografia che segue le vicende di una vita che, ad un certo punto, esce da un “tunnel” e scopre una «ripartenza, una nuova nascita». In realtà Loretta Marcon, che conosciamo e molto stimiamo per tutto quello che ha fatto e scritto intorno alla figura di Giacomo Leopardi, è nascosta dietro la maschera di una “Lei” di cui sono ricostruite le vicende personali. Una maschera che ben si sovrappone e si identifica nella sua esperienza esistenziale e culturale, ma la salva dal difetto più rischioso in simili imprese. Un io superegotico, esorbitante o al contrario ridotto alla sua minimalità insignificante. Proprio perché vuole «introdurre il valore che oggi appare in disuso del far memoria, del tramandare», questa Lei-Loretta passa in rassegna i contenuti o meglio il sentimento stesso del suo viaggio nel “fare memoria”, come affidato ad una controfigura lieve e vagante. Nel suo itinerario a tappe attraverso il ricordo delinea un prima e un dopo: il passaggio da un’Esistenza che diverrà Vita, una conversione radicale verso una continua progettualità.
I momenti dell’ esistenza vengono allineati come su un tavolo ideale su cui pescare, amalgamare, ricavare un flusso di evidenza storica e sociologica appena marcate. Il ricordo della propria vita passata. Un’educazione borghese negli anni cinquanta e sessanta, la scuola per signorine per bene, il primo lavoro, la conquista dell’Olivetti ( un flash narrativo particolarmente felice) , una madre che tanto somiglia a quella di Leopardi «occupata ad amministrare più che a comprendere». Poi il matrimonio , «una specie di fuga in un mondo di libertà che mai aveva conosciuto». Tutto un itinerario che sembra segnato passo dopo passo fino all’immancabile depressione: il sole nero, l’abisso di tristezza , il dolore incomunicabile che talora ci assorbe, fino a farci perdere il gusto di qualsiasi atto, il gusto della vita. Ma la Lei sa con Simone De Beauvoir che non si trasforma la propria vita senza trasformare sé stessi, sa con George Eliot che non è mai troppo tardi per essere ciò che avresti voluto essere. E comincia a trasformare sé stessa, capisce che può essere quella che voleva essere. Si è trovata come dinnanzi ad una specie di incrocio, quello di cui parla Wittgenstein. Più vie, ma bisogna indovinare quella giusta, quella che la porta dove sente di andare, quella per cui il caso che regge le sorti dell’uomo può diventare un destino, il proprio destino. Loretta Marcon scopre la bellezza e la perseveranza di una vita di studi e di ricerca, ritrova Leopardi e su di lui si laurea e con lui inizia un cammino di conoscenza e di scrittura. E anche un’opera di divulgazione che si prolunga nel tempo, con la prima visita a Recanati, la frequentazione della biblioteca di Casa Leopardi, la presenza della contessa Anna che è l’ultima custode delle memorie del poeta ritratta in poche felicissime righe e poi… Poi «un cerchio dentro al quale lei veniva a trovarsi oltre la corrispondenza d’amorosi sensi , insieme a Lui, nel suo secolo, nella sua casa, ma soprattutto vicino alla sua anima».
Dunque Leopardi, poeta di una vita, “angelo dalla spada sguainata”, con la sua opera “di prudenza per i ribelli”. Leopardi eroico e titanico, pessimista e ribelle, resistente a una realtà che dal dolore estrae una linea di solidarietà, la “disperata forza fraterna tra uomini“.
Loretta Marcon è così a tal punto immedesimata nelle parole di Leopardi quasi come il collezionista fuso con i suoi oggetti di Walter Benjamin e potrebbe ricordare il proprio vissuto infantile di «disidratazione delle parole», quando cioè si attenuava la corrispondenza tra la parola e l’oggetto da essa designato. Capiamo meglio il desiderio che la abbaglia, il sogno che la alimenta, il mito che vuole elaborare: muoversi tra gli amati segni leopardiani come tra i giocattoli della sua infanzia per protrarla all’infinito. Vera leopardiana appassionata e non leopardista come qualcuno, frigido e opportunista, e in barba agli specialisti che compilano bibliografie.
“Punto a capo” racconta in modo assai persuasivo una metamorfosi che è impegno continuo e una scelta di vita che diventa una vera e propria visione del mondo, nel modo in cui la intendeva Lucien Goldmann.
Renato Minore
Con l’editore Jean Luc Bertoni al Salone del Libro di Torino – 9 maggio 2024